Fra i pochi risvolti positivi della pandemia si può annoverare il sostanziale abbattimento del pregiudizio contro il lavoro svolto fuori dai locali aziendali. La liberazione di alcune tipologie di lavoro dal legame, anche culturale e simbolico, con l’azienda, ha poi reso plasticamente evidente anche un altro aspetto: la presenza fisica nel luogo di lavoro per un tempo prestabilito non equivale necessariamente a lavorare. Tale consapevolezza può rappresentare un primo decisivo passo per affrontare l’eterno problema italiano dei bassi livelli di produttività anche a fronte di un numero di ore lavorate comparativamente più alto rispetto ad altri Paesi.
Oggi però il cosiddetto lavoro agile o smart working è spesso ancora considerato soltanto una modalità lavorativa “da remoto” che il datore di lavoro può concedere ai propri dipendenti – per necessità, ma a volte anche come una sorta di premio – per svolgere fra le mura domestiche praticamente le stesse mansioni già svolte in azienda. La decretazione nel periodo dell’emergenza si è poi limitata a rimuovere transitoriamente l’obbligo di accordo scritto e a rendere, a certe condizioni, lo smart working un vero e proprio diritto individuale per i genitori di figli minori di 14 anni. Tuttavia, continuare a considerare il lavoro agile come un mero accessorio o variante del tradizionale lavoro subordinato sarebbe un grosso errore.
Le sue regole sono in realtà provviste di un potenziale radicalmente innovativo. Un rapporto di lavoro che, come da definizione legislativa, può essere organizzato «per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo lavoro», consente, da un lato, di superare l’idea che l’unica alternativa all’azienda sia la propria abitazione e dall’altro lato di attribuire agli obiettivi, e cioè in definitiva alla produttività, un valore prevalente rispetto ai tempi di lavoro. È per questo che oggi, tranne che per il lavoro puramente manuale e ripetitivo, insistere sul concetto di orario di lavoro come strumento unico di misurazione della prestazione lavorativa appare inutile e forse persino dannoso. Non hanno più senso, nell’epoca dello smart working legato agli obiettivi, soluzioni pur recentemente ipotizzate quali la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, o la riproposizione di sistemi retributivi esclusivamente ancorati al numero di ore lavorate.
Resta ovviamente irrinunciabile la funzione di tutela – anche della salute – svolta dall’orario di lavoro massimo fissato per legge, e che nel lavoro agile si traduce principalmente nel cosiddetto “diritto alla disconnessione”. Ma non va sprecata l’occasione di ripensare il lavoro subordinato secondo nu ovi schemi più incentivanti e meritocratici, anche infrangendo qualche antico tabù, ad esempio incoraggiando sempre più una retribuzione crescente in base alla produttività, oppure introducendo, come accade in altri Paesi europei, la possibilità, in caso di scarso rendimento, di approntare piani di miglioramento della performance che, in caso di fallimento rendano possibile anche la sostituzione di un lavoratore improduttivo con uno più produttivo (cosa oggi di fatto pressoché impossibile). La sfida a innovare non è lanciata tuttavia solo al legislatore: il contratto di smart working ha per legge pochi requisiti minimi, e quando, finita la fase emergenziale, tornerà obbligatoria la forma scritta, spetterà alle imprese immaginare e codificare le clausole che presiedono allo svolgimento e alla misurazione della prestazione del lavoro agile, nonché organizzare la produzione in modo tale da rendere lo smart working qualcosa di più di un semplice lavoro a distanza. Solo così potremo forse dire, parafrasando antichi slogan, lavorare meno, lavorare meglio.
Siti di riferimento: il sole 24 ore